Mercoledì 21 gennaio, alle 21, al Teatro Cucinelli di Solomeo grande attesa per Oylem Goylem lo spettacolo cult che ha contribuito a rivelare agli italiani Moni Ovadia, un artista originale, unico nel suo genere, in questa occasione accompagnato dalla Stage Orchestra, Maurizio Dehò al Violino, Luca Garlaschelli al Contrabbasso, Emilio Vallorani al Flauto, Massimo Marcer alla Tromba, Paolo Rocca al Clarinetto, Albert Mihai alla fisarmonica e Marian Serban al Cymbalon.
La lingua, la musica, e la cultura Yiddish, quell’inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, la condizione universale dell’Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque, sono al centro di Oylem Goylem. Si potrebbe dire che lo spettacolo ha la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore sa rendere gustosamente vivaci. Ma la curiosità dello spettacolo sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte della cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
Moni Ovadia e i suoi musicisti danno vita a una rappresentazione basata sul ritmo, sull’autoironia, sull’alternanza continua di toni e di registri linguistici, dal canto alla musica; una grande carrellata di umorismo e chiacchiere, battute fulminanti e citazioni dotte, scherzi e una musica che fa incontrare il canto liturgico con le sonorità zingare.
Uno spettacolo che “sa di steppa e retrobotteghe, di strade e sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama il “suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora. La Moni Ovadia Stage Orchestra si rifà alla tradizione della musica klezmer nell’incrocio di stili, nell’alternanza continua dei toni e degli umori che la pervadono, dal canto dolente e monocorde che fa rivivere il clima di preghiera della sinagoga all’esplosiva festosità di canzoni e ballate composte per le occasioni liete.
Oylem Goylem è un esempio di come in uno spettacolo di centoventi minuti si possono fondere umorismo e tradizione, intelligenza colta e gusto popolare in una formula linguisticamente internazionale.
“Ho sempre pensato – dice Moni Ovadia - che la condizione dell’esilio oltre ad avere connotazioni di carattere socio-giuridico-esistenziali, dovesse essere riconosciuta per caratteri “organolettici” e fra questi, di mio particolare interesse: il suono. La parola di ogni lingua contiene in sé una musicalità originaria portatrice di segni ineffabili perciò non discernibili che conducono ad una contabilità unica.
Considerando il canto come prima istanza della musica, ritengo centrale in quella ebraica il krekhz, il lamento del cantore della sinagoga, una melopea vocalizzata su una sillaba o su una sola vocale, dal carattere insistito ed ossessivo, che quando, per ragioni “gastronomiche” viene accompagnato dall’organo produce una torsione armonica occidente versus oriente singolarmente emozionante.
Inscindibilmente legato alla condizione della dispersione, non necessariamente definita da una condizione materiale, quanto piuttosto, da una condizione dello spirito, il krekhz eleva la sua provocazione, forse come protesta utopica ed impotente per richiamare l’Eterno dal “Suo Esilio”, supremo paradigma della diaspora spirituale dell’uomo.
La musica Klezmer, il patrimonio dei musicisti ebrei dell’Europa orientale, costituita in prevalenza da una mescolanza per sincretismo delle culture musicali tradizionali, popolari e popolaresche di quel vasto arco territoriale comprendente impero zarista e impero austro-ungarico e arricchitasi dal fertile interscambio con l’altra grande diaspora europea, quella del popolo zingaro, deve comunque il suo carattere originale a quel sottile filo intessuto nelle sue fibre che è il melisma del canto liturgico e del nigun, melodia estatico religiosa dei Chassidim (devoti).”